AUFSTIEG UND FALL DER STADT MAHAGONNY
Roma, Teatro dell’Opera, 6 ottobre 2015
Copyright: Teatro dell‘ Opera Roma
La rappresentazione di Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny di Kurt Weill si inserisce a pieno titolo nel percorso dedicato ai grandi compositori del Novecento che il Teatro dell’Opera di Roma sta realizzando nell’ambito della stagione 2014-2015, segnandone la conclusione; il percorsovedrà la sua naturale prosecuzione all’inizio della nuova Stagione 2015-2016 con The Bassarids di Hans Werner Henze, in un progetto sempre più teso a valorizzare la contemporaneità nel panorama musicale e ad intendere il Teatro musicale come “cosa viva”.
Andata in scena all’Opera di Roma una sola volta, nel 2005, Ascesa e caduta della città di Mahagonny torna dopo dieci anni in un nuovo allestimento che vede la regia di Graham Vick, regista tra i più inventivi nel panorama odierno, e il debutto alla direzione dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma del Maestro John Axelrod, Direttore Principale Ospite della Sinfonica “Giuseppe Verdi” di Milano.
Il connubio artistico Weill-Brecht, affermatosi nella creazione di Die Dreigroschenoper, attraverso l’esperienza del Songspiel Mahagonny porta ad Aufstieg und Fall derStadt Mahagonny e al consolidamento di un nuovo tipo di teatro musicale, il teatro epico, che, tramite le sue tecniche drammaturgiche e i contenuti musicali “antiromantici”, continuamente si mantiene distaccato dalla rappresentazione realistica e dall’illusione del coinvolgimento emotivo, salvaguardando nell’ironico distacco la distanza critica dalla vicenda e l’effetto di straniamento alienante.
Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonnyè un atto d’accusa contro la società capitalistica nella quale si vive una vita artificiale dominata dalla legge della domanda e dell’offerta, dove tutto è permesso tranne non avere denaro, e dove anche chi crede di dirigere il gioco è in realtà uno schiavo che finisce con l’essere travolto dal sistema; non ci viene presentato alcun “eroe positivo”, alcuna soluzione, se non per via indiretta, negativa. Tutti, a Mahagonny, hanno torto: sfruttatori e sfruttati. Non viene offerta nessuna salvezza; la distruzione finale della città-denaro non servirà come catarsi ai suoi abitanti.
Copyright: Teatro dell‘ Opera Roma
La vera grandezza dell’opera sta nella sua capacità di anticipare i tempi, descrivendo l’anarchia della società dei consumi, la falsità e la decadenza del sistema capitalistico, ed è proprio su questo valore simbolico dell’opera che si basa la messa in scena del regista Graham Vick, che per la terza volta nella sua carriera affronta Aufstieg und Fall derStadtMahagonnye oggi ne realizza una rilettura in chiavecontemporanea che colloca la vicenda nel centro di alcune delle problematiche più attuali e scottanti della nostra epoca, come quella dell’immigrazione o del fondamentalismo o della corruzione del potere, evidenziando così come il mito di Brecht e Weill sia di grande attualità e anzi universale, in quanto narra della condizione umana nella sua più intima e “scomoda” essenza. Le prime proiezioni delle parole “truffa “ e “ traffico immigranti” che vediamo sul sipario tagliafuoco ci portano fin dall’inizio in un programma di impegno civile e politico e aprono la scena su un mondo quanto mai variegato e multietnico di personaggi che incessantemente animano il palcoscenico, che mantiene fino alla fine un’atmosfera vivace, luminosa e di grande energia , ravvivata dalla ironica inventiva nella scelte delle scene e dei costumi, realizzati da Stuart Nunn, e dalla freschezza delle luci e dei colori. Il palcoscenico è trasformato in una sorta di contenitore che riproduce una sala di aeroporto, pensiamo al viaggio come metafora della condizione precaria e transitoria della vita umana; all’interno del “contenitore” gli elementi scenici riproducono cartelli autostradali o aeroportuali di ogni sorta, mentre le proiezioni video mandano immagini di metropoli convulse o di sbarchi di immigrati, vediamo cartelli e striscioni o scritte luminose o elementi che alludono ad internet, cartelli che talvolta interagiscono col pubblico; un mondo caleidoscopico di personaggi compare nelle varie scene, dalle donne in burka ai personaggi togati ai giovani ribelli; gli elementi scenici acquistano talvolta un valore simbolico, come nella scena 13 il grande indicatore luminoso che scende dall’alto e guida la discesa nei meandri più contorti dell’essere umano nell’ordine delle quattro fasi salienti, o il cassonetto dove vengono gettati i corpi ormai senza vita, o come l’enorme ventaglio di banconote nella scena del processo-farsa che poi successivamente girandosi si trasforma in una sorta di macchina barocca che sorregge il Dio-uomo; spesso vediamo in scena giornalisti o inviati o proiezioni di notiziari televisivi attinenti la vicenda o addirittura il palcoscenico trasformato in un set televisivo con tanto di telecamere attive come accade nella scena del processo, cosa che evidenzia la viva attualità dei contenuti ma nell’inevitabile prospettiva filtratadei mass media; notiamo infine come la decadenza irrefrenabile del sistema e della città investa anche fisicamente i personaggi, che all’improvviso vengono presentati come vecchi e infermi, ad eccezione di Jim l’”eroe” del momento. La presenza costante in scena di 25 giovani attori è un punto di forza dell’idea registica di Graham Vick,un gesto per dare spazio ai giovani incentivando la loro affermazione nel mondo del lavoro come più in generale nella società, a scapito delle inattaccabili posizioni di potere dei vecchi; il gruppo di giovani interagisce con notevole disinvoltura con gli altri personaggi, ora amalgamandosi ora con dialettica provocazione, spesso è loro affidata la recitazione delle didascalie che introducono ogni scena, di fatto movimentano e arricchiscono con azioni sceniche combinate una messa in scena già di per sé complessa e di forte impatto, rendendola ancora più coinvolgente nei momenti in cui si trovano ad interagire con il pubblico: nell’irruzione in platea di un piccolo gruppo all’inizio dell’opera, o anche successivamente quando, in seguito alla frase “ma forse neanche lei, caro signore, avrebbe tirato fuori i soldi per salvare il nostro tagliaboschi” provocatoriamente indirizzata al pubblico da un giovane, vediamo nel finale riempirsi la sala di manifesti con frasi brechtiane calati dai palchi e di un corteo di giovani che insieme ai protagonisti incedono nella platea verso il palcoscenico, Direttore rivolto verso il pubblico, concludendosi così l’opera con l’ultima didascalia su striscione in scena “Non rubateci il futuro”,come uno spiraglio di luce che si intravede in fondo al tunnel.
Tutti, in questa rappresentazione, sono attori; anche i musicisti sono talvolta coinvolti nell’azione scenica, eseguendo in scena i brani per piccolo ensemble di ispirazione cabarettistica; di particolare rilievo la presenza del Pianoforte.
Brenden Gunnell, , Measha Brueggergosman. Copyright: Teatro dell‘ Opera Roma
Lo stile musicale dell’opera pur se apparentemente frammentario nel suo eclettismo, nel ritorno alle forme chiuse e nel ricorso straniante alle continue interruzioni delle didascalie e dei testi recitati, mantiene al suo interno una sottesa unitarietà che si nutre di una certa “poetica della canzone” intesa come cifra stilistica presente un po’ dappertutto,dando vita all’ironico gioco di montaggio, per le scene come per la musica, tra canti popolari e canzonette, marce, ballabili, parodie e pezzi concertati, jazz e recitativi, corali e citazioni bibliche. “L’opera può ridiventare per noi prezioso contenitore che raccolga tutte le forme e i generi della musica” (Weill).Con invenzioni nascoste e raffinate, con squisite contaminazioni, Weill sposta continuamente i confini tra la musica colta e la popolare, tra parodia ed espressione diretta, tra disegno grottesco e raffigurazione psicologica. La sapiente bacchetta del direttore d’orchestra John Axelrod ci conduce con sicurezza attraverso questo mondo variegato e complesso, di apparente facile fruibilità popolareggiante ma denso di riferimenti colti e di nuove intuizioni; buono l’accordo col palcoscenico, costantemente i momenti di tensione musicale corrispondono a quelli dell’azione scenica , la concertazione non perde mai la sua tersa chiarezza anche nei concertati più complessi, e l’orchestra da prova di padronanza e duttilità interpretativa anche nei frequenti momenti in piccolo organico da cabaret. Il Coro mostra sicurezza esecutiva e vivace presenza scenica. La riuscita dell’intero spettacolo è sicuramente garantita dalla superba esecuzione dell’intero cast vocale, ogni interprete fa vivere con efficace coinvolgimento il proprio personaggio in tutti i suoi risvolti psicologici e attoriali, con sensibilità e coraggio; i ruoli vocali, tutti caratterizzati da un notevole impegno tecnico ed interpretativo pur se in un contesto musicale di derivazione non prettamente operistica, hanno evidenziato le ottime qualità esecutive dei solisti; Leokadja Begbick è magnificamente interpretata da Iris Vermillion, che, perfettamente a proprio agio nei panni managerialidi cinica e spregiudicata “mente” del gruppo, mostra una drammatica potenza vocale particolarmente efficace nella tessitura più grave che caratterizza il ruolo, con grande resa esecutiva; la Jenny Hill di Measha Brueggergosman ci seduce con la sua vocalità calda e vibrante, espressiva e suadente,convincente e accattivante nella presenza scenica, con qualche momento di autoironia; nei panni di Jim Mahoney vediamo Brenden Gunnell, tenore di notevoli qualità vocali ed interpretative, che con sicurezza e duttilità sa passare dai momenti di maggior afflato lirico e preziosa morbidezza vocale (come negli struggenti duetti Duetti con Jenny o in quello con Joe o nelle songs) a quelli di maggior vigore drammatico; una particolare attenzione va alle qualità attoriali di DietmarKerschbaum nel ruolo di Fatty, sempre efficace anche nell’espressività del volto, e al contempo sicuro e vigoroso nell’emissione vocale; nel ruolo di Jack O‘ Brien il tenore Christopher Lemmings , dalla voce particolarmente timbrata e proiettata, capace di emergere anche nei momenti di insieme; Bill di Eric Greene si distingue per la potenza vocale e l’indubbia presenza scenica; Willard White si cala perfettamente nel ruolo di Moses; convincente l’esecuzione di Neal Davies come Joe, che notiamo anche nei brani d’insieme come il Duetto con Jim o il terzetto con Bill e Jack del primo atto, bel momento di realizzazione musicale. Convincente anche il resto del cast, in sinergia col ritmo generale dello spettacolo.
Buon successo di pubblico, lunghi e calorosi applausi per tutti gli artisti.
Cristina Iacoboni